LAUSANNE 3- CHE ROBA E’?

dicembre 9, 2010

Un partecipante al Congresso evangelistico, che si è svolto ad ottobre a Città del Capo in Sud Africa, ci racconta la storia dei congressi che portano il nome della ben nota città svizzera illustrandoci sia gli obiettivi che si intendono realizzare nel più ampio mondo evangelico mondiale sia quanto è stato fino ad ora concretamente realizzato, anche in quest’ultimo appuntamento.

Introduzione

Nel 1974, Roy Coad, storico delle Assemblee inglesi, nello scrivere la prefazione alla seconda edizione del suo libro, “A History of the Brethren Movement” (Paternoster Press, 1976) riteneva che c’erano i segni per affermare che l’evangelismo internazionale e interconfessionale avrebbe in futuro attinto sempre più, da un punto di vista ecclesiologico, alle correnti di pensiero come quella che lui descriveva nel suo libro, vale a dire le Assemblee dei Fratelli.

Nel dire questo Coad si riferiva esplicitamente alle notizie e agli echi che giungevano dal “grande” Congresso Internazionale sull’Evangelizzazione del mondo, tenutosi a Losanna nello stesso anno in cui Coad faceva questo commento (il 1974). Se Coad avesse o meno ragione (il rapporto tra il mondo dei Fratelli e questa esperienza è stato analizzato da altri con risultati differenziati a seconda della posizione che i vari analisti avevano nei confronti delle Assemblee), il suo commento da un lato ci ricorda l’importanza che l’evento ebbe all’epoca in tutti gli ambienti, compreso il nostro e, dall’altro lato, sempre il suo commento ci permette di introdurre la comunicazione che segue.

Dal 15 al 26 ottobre si è svolto a Città del Capo, in Sudafrica, il Terzo Congresso della serie Losanna (Losanna III). Ho avuto il privilegio, insieme ad altri dieci fratelli e sorelle (la maggior parte più giovani di me), di partecipare come delegato italiano a questo evento. Inoltre, da quando è iniziata la procedura di invito e accreditamento (a Città del Capo si sono radunati 4000 delegati provenienti da tutto il mondo e quasi la metà di quel numero di operatori di vario genere), ho il privilegio di far parte anche, insieme a fratelli conosciuti fra le nostre Assemblee come Rinaldo Diprose (Roma Borgata Finocchio) e Daniele Salini (Piacenza vicolo Molineria S. Nicolò), del Comitato nazionale della Delegazione che si pone anche l’obiettivo di far conoscere in modo chiaro in Italia, e meglio che nel passato, il Movimento di Losanna.

Losanna … andiamo con ordine

Nel 1974, sotto l’impulso di Billy Graham e di John Stott si radunarono a Losanna in Svizzera 2700 evangelici provenienti da tutto il mondo, tranne che dal blocco sovietico e dalla Cina, per capire il modo in cui rispondere meglio al mandato missionario ed evangelistico che Gesù Cristo ha rivolto ai suoi discepoli di tutti i tempi e di tutti i luoghi.

L’evento fu presentato dalla stampa occidentale come il più grande raduno di cristiani della storia (si badi che i Congressi e le iniziative che portano il nome di Losanna non sono espressione di una denominazione né di una tradizione teologica!). Il risultato di quel primo congresso, a cui segui, come Congresso generale, quello di Manila nel 1989, può essere indicato in tre punti (naturalmente ce ne sarebbero molti altri).

1. Il Patto di Losanna

I delegati a Losanna parteciparono attivamente, grazie allo stimolo di un gruppo di lavoro guidato da John Stott, alla stesura di una dichiarazione di intenti nel quale tutti si impegnavano (da qui l’idea di chiamarlo patto) ad adempiere il mandato missionario nella sua globalità verso tutto il mondo.

La frase “Tutta la chiesa deve portare tutto il Vangelo a tutto il mondo” divenne il motto del Congresso e rappresenta la sintesi del Patto. Da allora in poi, rifarsi al Patto di Losanna ha significato esprimere concretamente il desiderio di cooperare, in un clima segnato dalle regole della Parola di Dio, all’adempimento del mandato missionario. Per saperne di più sul Patto si può ora consultare in italiano il commento che lo stesso Stott fece a questo documento (“Tutta la chiesa deve portare tutto il vangelo a tutto il mondo”, Edizioni GBU, 2010)

Il Movimento di Losanna

Gli organizzatori del primo Congresso del 1974 ebbero la saggezza di proseguire questa esperienza senza cadere nella tentazione di creare un organismo mondiale sovraecclesiale (come il Consiglio Ecumenico delle Chiese).

Non è questa la sede per elencare il pullulare di iniziative poste in essere da comitati e gruppi di lavoro agilissimi ma tutti rigorosamente mondiali e interdenominazionali, a partire da quel Congresso e che sostanziano il Movimento di Losanna. Tuttavia può essere utile segnalare quello che ritengo essere il frutto migliore e maggiormente fruibile di tutto il Movimento: mi riferisco ai LOP (Lausanne Occasional Paper), vale a dire studi e ricerche finalizzati a comprendere particolari ambiti del mondo e, studiandoli alla luce della Parola, capire come possono essere approcciati con una proclamazione del Vangelo fedele ed efficace. Chi volesse rendersi conto, troverà nella pagina internet dedicata ai LOP (vi si accede dalla home page principale: http://www.lausanne.org) una messe di materiale (in inglese purtroppo) da analizzare per trarre validi spunti nella testimonianza.

3. Lo spirito di Losanna

Il terzo punto del Movimento di Losanna che deriva da quel primo congresso del 1974 e che si cerca di preservare ancora oggi è quello che fu subito definito lo “spirito” dell’evento. Per descriverlo è bene lasciare la parola a John Stott:

“Eravamo consapevoli di una profonda e straordinaria unità per il fatto che prendevamo sul serio Cristo e la sua Chiesa. Abbiamo lodato Dio per la sua grande salvezza, e ci siamo rallegrati per la comunione che egli ci ha dato con sé e gli uni con gli altri. È sempre difficile esprimere delle sensazioni con le parole. Eppure «lo spirito di Losanna» era tangibile ovunque. Abbiamo cercato di catturarlo nella scelta delle frasi. Una serie di relatori auspicarono che il congresso fosse segnato più dal pentimento che dal trionfalismo. La fiducia in sé stessi e l’autogratificazione non sono mai appropriate tra i figli di Dio. Lo spirito di Losanna è dunque uno spirito di umiltà e uno spirito di pentimento. Quando ci si rende conto dei fallimenti del passato e della presente azione di Dio, ciò ci porta a guardare al futuro con speranza. Questo è stato il contesto del nostro «patto» pubblico. La convinzione che il Vangelo sia la buona notizia di Dio per l’intero mondo, si esprime forse con il linguaggio della conquista o con il suono della presunzione? Se è così allora meritiamo le critiche, perché noi siamo ambasciatori di Gesù Cristo, e il regno che cerchiamo è il Regno di Dio (Mt 6:33). Il Signore risorto ci ha ordinato di proclamare il Vangelo a tutta l’umanità e di fare discepoli da ogni popolo (Mc 16:15; Mt 28:19)»

Losanna III

Il tema del Terzo Congresso di Losanna è stato: “Dio in Cristo, riconcilia il mondo a sé”.

Il Congresso era organizzato in questa maniera (riporto le scansioni maggiori e più importanti):

• Ogni giorno era dedicato a un tema: la verità (difendere la verità dell’unicità di Cristo, in un mondo pluralistico); la riconciliazione (realizzare la pace di Cristo in un mondo segnato dalle divisioni e dalle fratture); fedi mondiali (portare la testimonianza dell’amore di Cristo a persone appartenenti ad altre religioni); priorità (discernere la volontà di Dio per l’evangelizzazione nel nostro secolo); integrità (l’appello alla chiesa di Cristo a tornare all’umiltà, all’integrità e alla semplicità); collaborazione (comunione all’interno del corpo di Cristo in vista di un nuovo globale equilibrio tra tutte le sue componenti).

• Nella mattinata c’erano due sessioni plenarie: nella prima avevamo un’esposizione biblica tratta dalla lettera di Paolo agli Efesini (si sono alternati nell’esposizione: A. Fernando dello Sri Lanka, Ruth Padilla del Costa Rica, J. Piper degli Stati Uniti, Vaughan Roberts dell’Inghilterra, Callisto Odede del Kenia, Chris Wright, anch’egli inglese e R. Atallah, egiziano); nella seconda plenaria c’erano altri oratori che sviluppavano il tema della giornata.

• Il resto del programma quotidiano era occupato da sessioni dedicate esplicitamente ai temi (multiplexes sessions) e ad approfondimenti di una serie di altre tematiche che facevano da corollario (dialogue sessions).

In un tempo di mutamenti, il Vangelo non cambia!

Non c’è un’unica ragione che ha spinto le diverse “guide” del movimento evangelico mondiale a cimentarsi con l’organizzazione (imponente) di un Terzo Congresso mondiale della serie Losanna. Forse la più importante scaturisce dalla constatazione che la vita degli uomini sulla terra, a tutte le latitudini, ma in particolare in Occidente, è alle prese con il labile e sfuggevole fenomeno del mutamento, un fenomeno che si sviluppa a volte a velocità e con rapidità difficili da gestire.

Gli spostamenti fisici e la digitalizzazione dell’informazione rendono il nostro mondo un posto che per certi versi è piccolo in quanto tutti siamo in rete, tutti collegabili. Di fronte alla realtà del mutamento, di fronte ai cambiamenti sociali ed economici viene da chiedersi se anche il messaggio cristiano (tutto il Vangelo) non sia una realtà che possa essere sottoposta, più o meno coscientemente, al cambiamento. Losanna III aveva lo scopo di rispondere a questo terribile quesito e (mediante il Cape Town Commitment) ha risposto di no: il Vangelo non muta:

“Il Vangelo non è un concetto che ha bisogno di nuove idee, ma una storia che ha bisogno di essere raccontata in modi sempre nuovi. La storia che non è cambiata è quella di ciò che Dio ha fatto per salvare il mondo, supremamente negli eventi storici della vita, della morte, della risurrezione e del regno di Gesù Cristo. In Cristo c’è speranza” (Traduzione italiana provvisoria del Cape Town Commitment).

Poco prima nel Commitment si era parlato molto opportunamente della condizione degli uomini peccatori, anch’essa non mutata rispetto al quadro che presenta la Bibbia, e della prosecuzione della missione della chiesa, anche questa una realtà che non cambia, con il cambiare dei tempi.

Un cambiamento positivo

Un’altra ragione che stava alla base del Congresso era, al contrario della prima, la registrazione di un cambiamento questa volta positivo: il Cristianesimo evangelico non è più una prerogativa e un vanto dei paesi occidentali. Mentre in Occidente è in diminuzione, nel sud del mondo (in Africa, Asia e Sud America) è in forte espansione.

Tutte le chiese e denominazioni evangeliche sono in forte crescita negli scenari più poveri e terribili del nostro mondo. È significativo, quello che sta avvenendo nella “Comunione anglicana”: praticamente in banca rotta in Occidente a causa delle sciagurate scelte etiche (omosessualità su tutto) è al contrario in forte crescita nel sud del mondo: una crescita sana, segnata da una fedeltà al vangelo e dal netto rifiuto del lassismo e del relativismo occidentale.

Ecco perché è stata l’Africa a ospitare Losanna III. Si credano alle testimonianze di chi ha partecipato al Congresso: la sera, durante la sessione plenaria dedicata alle varie zone del mondo, i nostri cuori erano toccati e segnati dalla straordinaria forza dell’Evangelo in mezzo alla situazioni più difficili e impensabili come la guerra, la persecuzione da parte dei vari fondamentalismi, il degrado delle grandi metropoli asiatiche con la piaga della prostituzione minorile, e poi l’AIDS, i regimi totalitari… e la Cina. Già, la Cina è stata l’unica nazione al mondo a negare, ai duecento delegati gia pronti a partire, di raggiungere Città del Capo. Nell’immensa sala delle riunioni c’erano qua e là delle sedie vuote: erano i posti dei fratelli e delle sorelle cinesi.

Preoccupazioni “interne”

Altre ragioni per questo congresso erano: come bisogna condurre l’evangelizzazione allorquando si è alle prese con fenomeni sociali molto duri? È qui che negli ultimi anni si è sviluppato negli studi sulla missione l’idea che la Chiesa non ha semplicemente una missione da svolgere, tra le tante cose che fa, ma è segnata indelebilmente dalla missione.

L’essere missionaria da parte della Chiesa non è una sua qualità ma è il suo stesso modo di essere. Ragion per cui assume una grande importanza il vivere con coerenza il Vangelo che si proclama.

Uno dei momenti più toccanti del Congresso è stato allorquando alcuni dei relatori hanno evidenziato che i pericoli più grandi per la missione e la proclamazione del Vangelo non sono rappresentati dai nemici esterni del Vangelo, ma da veri e propri idoli che attanagliano il mondo evangelico internazionale.

Alcuni oratori sono stati molto chiari: c’è un calo pauroso degli standard etici nel mondo evangelico; c’è bisogno di una nuova riforma, se non si vuole sempre più assomigliare alla chiesa corrotta del tardo medioevo. L’arrivi-

smo, il successo, l’arroganza, i soldi, il prestigio, sono i peccati più evidenti nel mondo evangelico.

Un servizio mosso dall’amore

Al Congresso è stato proposto un documento dal titolo “L’impegno di Città del Capo”.

Si tratta di un documento che esorta gli evangelici a riaffermare la fedeltà al Vangelo e a tutto ciò che esso comporta. Ma questo impegno – è questa la ratio dell’esortazione – non deve essere vissuto all’insegna della paura né tanto meno può essere qualcosa che si può procrastinare nel tempo.

Ma che cosa può far sì che un impegno assuma l’urgenza di un compito non rimandabile, senza scadere nell’ansia del legalismo? È l’amore! Questa dichiarazione di intenti è infatti formulata nel linguaggio dell’amore.

L’amore è l’atmosfera che circonda la relazione che Dio ha istituito nella storia con gli uomini e in particolare con il suo popolo, una relazione che ha preso sempre la forma di un patto:

“I patti biblici, antico e nuovo, sono l’espressione della grazia e dell’amore redentrici che si versano sull’umanità perduta e sulla creazione deturpata. Essi esigono in risposta il nostro amore. Questo nostro amore si esprime nella fiducia, nell’ubbidienza e nell’impegno appassionato per il patto che abbiamo con il Signore”.

Questo patto dovrebbe spingerci a manifestare:

• “Il nostro amore per tutto il Vangelo, considerandolo come la gloriosa buona notizia in Cristo, per ogni dimensione della sua creazione, in quanto questa è stata devastata dal peccato e dal male.

• Il nostro amore per tutta la chiesa, considerata il popolo di Dio, redenta da Cristo e tratta da ogni nazione esistente sulla terra in tutte le epoche della storia, chiamata a condividere la missione di Dio in questa epoca e a glorificarlo per sempre nell’era a venire.

• Il nostro amore per tutto il mondo, così lontano da Dio ma così vicino al suo cuore, quel mondo che Dio ha così tanto amato che ha dato il suo unico Figlio per la sua salvezza”.

(Traduzione italiana provvisoria del Cape Town Commitment).

Naturalmente, come ogni cosa che noi uomini possiamo fare sulla terra, anche con il miglior intento di rendere al Signore tutta la gloria che gli è dovuta, anche questo straordinario evento non è stato perfetto. Anche in questo caso è certo ognuno dei partecipanti avrebbe voluto vedere enfatizzato un aspetto invece di un altro. I prossimi anni, se il Signore non torna prima, ci vedranno impegnati a sottolineare aspetti positivi e negativi di questo evento.

Ma una cosa è certa, come coglieva un giornalista italiano del Corriere della sera nell’unico articolo apparso in Italia sull’evento di Città del Capo: “Nella mega assise di Città del Capo, gli evangelici si sono rilanciati come potenza mondiale, come «chiesa globale di Gesù Cristo». È una chiesa in crescita per numeri e influenza…”

(M. Ventura, Corriere della Sera, sabato 30 ottobre 2010).

Per ulteriori informazioni: gdiga@tiscali.it

Giacomo Carlo Di Gaetano

ETHICAL LEADERSHIP IN CONTEMPORARY LOCAL SETTINGS – AN EXAMINATION OF RELEVANT BIBLICAL PASSAGES WITH A FOCUS ON 1 PETER 5

novembre 25, 2010

ETHICAL LEADERSHIP IN CONTEMPORARY LOCAL SETTINGS – AN EXAMINATION OF RELEVANT BIBLICAL PASSAGES WITH A FOCUS ON 1 PETER 5

In the world around us, in recent years, there has been much talk and writing about the need for good ethics in the lives and practices of contemporary leaders. Whole books have been written about this topic. Having said this, we could add that, in reality, the subject is not a new one. Almost 2000 years ago!, the New Testament writers, in key discourses recorded in Acts chapter 20 and 1 Peter 5, as well as in some Pauline epistles, addressed issues relating to “ethical leadership”, issues such as servanthood, integrity, etc. One might not find these exact same terms in those biblical passages but the concepts are certainly there. One may also note that some contemporary writers, people who have also adhered to Christianity, believe we should learn from Jesus’ way of leading and follow Him as our role model for both life role leadership and for organizational leadership.

In this paper we shall begin by considering some insights and lessons relating to requirements for local church leaders as found in the writings of the apostle Peter, one of the three components of the inner circle of Jesus’ disciples, with a focus on the first four verses of 1 Peter chapter 5. Let us begin by considering the general context of this epistle and its intended recipients.
1 Peter was written to readers which the apostle considered to be “exiles of the dispersion in Pontus, Galatia, Cappadocia, Asia and Bithynia”. It seems that Peter wrote to Christians who were from a variety of ethnic backgrounds, Gentile Christians, not Jewish believers. This consideration arises if one takes into consideration two verses in chapter 1, verses 14 and 18. So, what does the term “exiles” refer to? The use of the term “exiles” is probably not a reference to literal exiles but rather to readers who are (or should consider themselves to be) “spiritual exiles awaiting their heavenly inheritance.” This epistle contains much useful teaching for living as Christians in a non Christian society, it “ranges over a wide field of Christian theology and ethics.” Such a combination of theology and ethics was necessary as its original readers were living as a minority in a hostile society in which, though there might not have been officially sanctioned persecution, there were, nevertheless, “spasmodic and general outbursts against Christians”. At this point, we might ask: Is the situation of many Christians in today’s world so different from what it was in the first century, there in the Roman world? It might be significantly different in those Western nations which, historically, have been strongly influenced by the Protestant Reformation but it certainly isn’t easy in those Western nations (in Southern Europe) in which Protestants, and even more, Evangelicals, constitute a real minority and might be affected by a minority (or inferiority) complex. And if it isn’t easy in parts of Southern Europe, and if Christians in Southern Europe can identify in some way with the original readership, one might imagine that the apostolic advice found in this book is even more suitable in situations that are really difficult and challenging, situations like those found in Muslim majority nations such as Senegal!
It is noteworthy that this epistle contains many references to suffering, both to the Christians’ own suffering and to Christ’s suffering. This epistle teaches that “Christians are to endure suffering for the sake of Christ, looking back on Christ’s sufferings and forward to the consummation of salvation in his second coming.” I mention this emphasis on suffering as we shall see that it is some way relevant to the 4 verses we shall consider. Wayne Grudem writes that the use of the word so or ‘therefore’ (oun) found in verse 1 of chapter 5 “suggests that this section follows on logically from the previous one.” Further, “it is likely that the thought of judgment beginning from the house of God (4:17) prompted Peter to focus on the need for purity of heart before God in relationships among those in the church, beginning with the leaders of the church.” We can agree partially with Grudem as it is indeed true that the preceding and following sections must be taken into account in order to understand the context of these four verses relating to exercising local church leadership in a way which is is consistent with the Chief Shepherd’s example and desires. However, though the certainty of future “judgment” is something important for all of us to remember, it is preferable to consider the theme of the reality of “suffering” as providing the immediate context for this teaching relating to leadership. Roger Hahn writes “First Peter 5:1-5 turns from general instructions to all Peter’s readers in Asia Minor to specific words to the church leadership… As Davids (p. 174) notes the paragraph before and the paragraph after deal with suffering. The most logical conclusion is that these instructions to the elders should be understood as instructions about how to help a church that is under persecution.” Again, we seem to be in the presence of a statement which is (only) partially true. We have already said that it is possible that the original readers’ situation might not have been a situation of generalized, officially sanctioned, persecution, but, as the contents of this epistle show us, though there might not have been officially sanctioned persecution, the original readers’ situation seems to have been one which, in many cases, included being marginalized, maligned and caused to suffer. This reality of suffering and discrimination against Christ’s followers should be taken into account as one reads all of 1 Peter, including chapter five.
Now, after this brief introduction to the context(s) of our passage, let us consider the first four verses of 1 Peter chapter five. In our reflections we shall make use of some insights taken from Alexander Strauch’s useful analysis of this passage in relation to eldership. The first four verses of 1 Peter chapter five present eldership as something strongly related to “shepherding”. In these verses, “Peter uses the language of shepherding to describe the responsibility of the elders to whom he wrote.” Alexander Strauch reminds us that this is the only New Testament “passage that singles out elders for direct exhortation. The only other example of direct exhortation to elders is found in Paul’s message to the Ephesian elders (Acts 20:17 ff.).” Though pronounced by two different apostles, the language used in these two passages in Acts and in 1 Peter is very similar though one notes that Peter’s language and discourse has some elements which we do not find elsewhere: The differences between these two “shepherding” passages could be linked to the fact that Peter’s discourse contains some implicit references to His Master’s teaching in Mark 10 and John 10 (Peter heard Jesus directly and was there when Jesus said the strong words we find in Mark 10:42-45, whilst the apostle Paul wasn’t present); Further, some of the language here might contain an implicit reference to a significant episode in Peter’s own life, a special encounter with the Risen Lord, which we find at the end of John chapter 21.
Our passage begins in verse 1 with Peter addressing “the elders”, not “the pastor” or “the bishop”, but a plurality of people. The existence of recognized collegial leadership in the early church seems evident from this verse and from other passages in the New Testament which talk about “the elders” in the plural (e.g. James 5:14).
Peter doesn’t address the elders as a totally separate category from the rest of the flock, in fact he writes in verse 1, to “the elders among you”. Further, he writes not as an apostle but as a “fellow elder”. By writing as a “fellow elder” he can make “his appeal from a wealth of related experiences.” He too, after an initial escape from suffering during Christ’s trial, learned, after Pentecost, through the Holy’s Spirit’s transforming work in his life, to not escape from suffering but to endure trials and accept them as part of the price that a follower of Christ, and even more a leader in the church, is called to pay for his identification with Christ and his sufferings (see Peter’s teaching in 1 Peter 1:6-7, 2:21, 3:14-16 and personal experience in Acts 5:17). Various possible interpretations of the phrase “a witness of the sufferings of Christ” have been proposed. Wayne Grudem sees this phrase and the related “one who shares in the glory to be revealed” as referring to Peter’s negative behavior during Christ’s trial and sufferings on the cross and to his subsequent restoration, restoration to the point of being able to one day share in the glory of Christ himself. He writes “the fact that Peter is also a partaker in the glory that is to be revealed shows that full restoration from sin is certainly available through Christ.” He also writes that, “on another level, the reference to Christ’s sufferings may also function as a reminder to the elders that just as Christ was willing to suffer for them, so they should be willing to endure hardship and suffering for the sake of those in their churches.” What is indeed clear at this point is that suffering (in the elders’ lives) will precede glory.
What was Peter’s charge to these elders? His charge was to “shepherd the flock of God among you.” As Strauch reminds us, here, at the beginning of verse 2, we are in the presence of an aorist imperative verb. He commands them to “shepherd the flock”. Literally he commands “to shepherd the sheep of God”. What does this “shepherding” imply? Well, it certainly will include feeding, that is giving good food to the flock. One is reminded here of the imagery of the “good shepherd” we find in Psalm 23 verse 2 in which the sheep is led to good pastures; we are also reminded of Jesus’ charge to Peter himself, found in John 21, “to feed my lambs” . However, though good food is indeed very important, the “shepherding role” cannot be limited to providing good food (i.e. to valid Bible Teaching). When one considers Jesus’ teaching about the nature of the “Good Shepherd” in John chapter 10 one finds other aspects which show us what being “a good shepherd” implies. The “good shepherd” leads the sheep out into good pastures, calling them to follow him (verse 4). The “good shepherd” shows sacrificial care for the sheep, even getting to the point, in Jesus’ case, of laying down his life for them (verse 11). The “hired hand”, in contrast, escapes when things get difficult (verse 12) and doesn’t really care for the sheep. In the parable of Luke chapter 15 composed of three stories we find what is commonly known as “the parable of the lost sheep”. This story talks about the owner of the sheep leaving the majority of the flock in a safe place in order to go out and search for one lost sheep (Luke 15:3-5). Now, whilst it is true that this is a story Jesus told to make a point with his Hebrew audience and whilst it is true that the flock the elders are called to “shepherd” is a group that does not belong them, it seems important to consider that the owner of the flock (the Lord himself) cares for all the sheep and would desire that the under-shepherds also show no discrimination whatsoever and that they, figuratively speaking, “go out” in order to recuperate the one sheep who for some reason has strayed. James chapter five (verses 19 and 20) seems to imply such a thing when James writes about fellow believers bringing back people who wander from the truth. If such an exhortation applies to all believers (who should care for one another in a practical way), surely it applies even more to those called to a shepherding responsibility of one kind or another (the elders and others with pastoral responsibilities within a local church).
The elders, as a group of men, are called to pastor the local church. The sheep need to “be fed God’s Word, protected from false teachers, and protected from internal clashes.” Protection and guidance of the flock in times of trouble and difficulty (difficulties such as those experienced by the first readers of this epistle) are more than necessary. Taking care of the flock is a major responsibility which, unless the local church is really tiny, can’t be handled by one person alone. It is always good to share the load, and for elders to be able to consult one another on difficult issues, especially considering the fact that the flock does not belong to them but to God himself. Elders are called to shepherd “the flock of God among you”. The flock belongs to God and the shepherds are also in the middle of the flock, they are part of the flock itself, accountable to the Great Shepherd. The flock depends on the shepherds’ care and, getting back to the imagery of sheep which we find in both the Old and New Testaments, is potentially vulnerable to all kinds of attacks from outside (attacks of “wolves”, that is evil people who attack the flock). Since the shepherds are both above the flock but also a part of it (among it), there is no space for a shepherd despot, especially considering the fact that the flock doesn’t belong to him but to His Lord and Master.
Considering what follows in the Biblical passage we are considering in this paper, we deduce that elders have no right to follow leadership models which are strictly derived from secular management models as church elders should be shepherds, called to exercise oversight in a voluntary way, in accordance with God’s will (verse 2).
Now, what do the words “ watching over them” (NIV) or “exercising oversight” (ESV), found at the end of verse 2, refer to? These words relate to the manner in which shepherding should be conducted; the apostle uses a participle episkopeō which relates to being an “overseer” (episkopos). In this passage, “the terms shepherding and overseeing are so closely associated that Peter can use one or the other without confusion” because they relate to governing the local church in a way that is suitable to the calling of a shepherd. Elders are called to oversee a local church, to supervise and guide a local body of believers. These concepts, and use of terminology, are consistent with the rest of the New Testament, see for example Paul’s teaching in Acts 20 where one finds that “all three terms – elder, shepherd and overseer- are used in the same context with respect to the same body of church leaders.”
We now go on to consider the heart of the discourse, found in verses 2 and 3 of our passage; these verses tell us three ways in which pastoral oversight should be exercised and three ways in which it shouldn’t be exercised. As we shall see, motivations and underlying heart attitudes are important and can determine the way such tasks are carried out and impact the effectiveness of the local eldership.
Pastoral oversight must be exercised not because the shepherds are forced to do it but because they are willing to do it. Pastoral oversight should be “not by compulsion/not because you must.” If the oversight is done grudgingly, the results will not be positive. “Elders who minister begrudgingly, under constraint, are incapable of genuine care for people.” A real willingness to serve is important as a heartfelt burden for the Lord’s people and a willingness to lay down one’s life sacrificially for them are important. Things must be done according to God’s will, according to God’s way, being willingly set apart for his service.
An elder should serve “not for shameful gain but eagerly.” Eagerness here is more than just being “willing” as in the previous phrase. Here the focus is on a positive desire to serve and to do things with the strength God provides. Now what does “shameful gain” or “sordid gain” refer to? And what about full time elders, should they “gain” something from their work? If an elder dedicates all his time to the church, should he not be adequately paid for his work? Let’s notice the fact that the word “shameful” is an adjective which qualifies the word “gain”. The presence of this adjective coupled with the concept of “serving eagerly” is significant. The focus here seems to be on having the right motives in one’s service. The elder should not exercise his oversight in order to earn money “shamefully”, that is he should not work for “greedy or selfish motives”, or earn his money “by dishonest or unfair practices”. Considering the fact that in other parts of the New Testament there is a reference to some elders having a right to earn money from this type of ministry (see 1 Timothy 5:17-18) we conclude that the heart of the matter here must be having the right motivations for one’s ministry and not being side-tracked by a love of money.
Verse 3 continues the discourse. The elders are told to do these things not yet “as lording it over…. but proving to be examples”. These words shift our “attention from inward motivation to outward behaviour.” Dr. Richard J. Krejcir writes “Lording over means haughtiness, arrogance (which is to abuse one’s power), to be controlling, not leading by example, to ‘lord over’ and not encourage, to micro-manage, to not serve. Humbleness is essential in leadership (Job 41:34; Psalm 10:5; 18:27; 101:5; 131:1; 6:17; Prov. 16:18; 21:4; 30:13)“ The term katakyrieuō which is variously translated domineering” or “lording over” can “carry the nuance of a harsh or excessive use of authority (note is use in Mt. 20:25; Mk. 10:42).” Jesus had already taught about such behavior in the presence of the disciples reminding them that they were not to lord it over others as the Gentiles do but rather to serve, following Jesus’ example (Mark 10:42-45). Peter probably has these words of Jesus in mind when he charges the elders not to lord it over others. We might say that the call in verse three is not to seek status but to seek “the edification of others”. And how can one edify others? By being an example for them, by living in a way that they can imitate. Whilst it is true that only God is perfect and no human beings are, it is noteworthy that “the early Christians expected all their leaders to live in a way which others could imitate as well: they did not have to be perfect in order to be examples to the flock.” Living a life worthy to be imitated is an integral part of the role of an elder, a major part of it, even more important than having certain academic qualifications. The elder is not a manager, he is not just one of the components of a committee or a board, he is to be a living example to those around him.
Now to verse 4 which refers to a future reward for elders who carry out their role with integrity, according to the directives found in verses 2 and 3. The verse begins with a reference to the “the Chief Shepherd” who will return. This Chief Shepherd is none other than the one who called himself the “Good Shepherd” in John 10:11-16, the disciples’ Master and Lord, who taught them by example and told them do to likewise (John 13:13-15). He is the “Chief Shepherd.” The adjective “Chief” is important in this context, it may be seen as referring to the fact that “the elders are men under authority- the authority and rule of Jesus Christ.” Thus, these elders aren’t really free to do as they wish, they will one day account for their actions to this Chief Shepherd. He will (one day) be manifested, that is he will be “made visible”, this is a clear reference to Christ’s visible return to earth. When the Great Shepherd is manifested, those elders who have shown faithfulness in conduct “in the exercise of the office of elder during this life” will receive the crown of glory that never fades away. What is this “crown”? The Greek term translating “crown” is stephanos, a word often used to refer to a “victor’s crown or ‘wreath’ in athletic contests (1 Cor. 9:25)”. This crown is a sign of special honour, “given not to all but only to those worthy of a particular public recognition, commonly as a reward for some kind of unusually meritorious activity.” . (Some consider the glory itself to be the crown) . In any case, though we might know the exact nature of the crown, we can concur wih the gist of what Wiersbe writes when he states that the faithful shepherd’s crown is “a crown of glory, a perfect reward for an inheritance that will never fade away (1 Peter 1:4).” Verse four gives us an eternal perspective, a perspective which assures us that human leaders are accountable to God and that those who live with integrity will be rewarded when Christ returns, those who are faithful will in some way share in Christ’s glory.
Summing up, what do we learn about leadership and particularly about church leadership from New Testament passages such as Mark 10:42-45, Acts 20:28-35 and the passage we have examined here in more detail, that is 1 Peter 5:1-4? We learn that Christian leaders, particularly in a local church setting, but I would also include those Christians who lead their own families , are called to “servant leadership” This sometimes contrasts strongly with contemporary managerial models as it did with the leadership models which were current back in the first century. Leading like Jesus and leading like the apostle Peter who learned from him will include not only oversight but also humbly and sacrificially taking care of people as a good shepherd takes care of his flock, remembering that the flock, in this case, belongs to God and there is accountability to the Chief Shepherd who will (one day) Return. As passages such as Acts 20 evidence, there is always the risk of wolves coming into the flock to damage it and elders need to be vigilant and aware of such potential risks. Therefore, for this and for other reasons, faithful shepherding will, as Peter teaches us in the rest of his epistle, include a certain amount of necessary suffering: If shepherd overseers are called to be practical examples to the flock (1 Peter 5:3) and if, as we have seen, the rest of the epistle envisages suffering for faithful believers, one can hardly suppose that a shepherd who leads by example will be able to avoid a certain degree of suffering!

Dobbiamo ascoltare il Signore e vivere secondo la sua volontà

settembre 26, 2010

“Dobbiamo ascoltare il Signore e vivere
secondo la sua volontà altrimenti, dopo la morte, sara’ troppo
tardi per ravvedersi”. Questo lo ha detto oggi, 26 settembre 2010, il papa Ratzinger. Sono parole con cui concordo, perché bibliche, parole che vanno prese sul serio e messe in pratica prima che sia troppo tardi. Leggete il Vangelo secondo Giovanni, ivi troverete vari incontri di Gesù, vari pronunciamenti del Messia, che vanno ascoltati e praticati. Gesù stesso ha affermato che non chiunque gli dice “SIGNORE SIGNORE” entrerà nel Regno dei Cieli ma chi fa la volontà del Padre Suo (dal sermone sulla montagna, Vangelo secondo Matteo capitolo 7).

A proposito del Rogo del Corano ipotizzato per domani 11 settembre

settembre 10, 2010

Se il Pastore Terry Jones si ostinasse a farlo, sarebbe un grave errore – Mentre si avvicina l’11 settembre, e si susseguono notizie altalenanti sull’intenzione del pastore Terry Jones di dare seguito al suo proposito di fare un falò di copie del Corano; prima si, poi no, poi anzi si, mi vengono in mente le parole dell’Apostolo Paolo: “Ogni cosa mi è lecita, ma non ogni cosa è vantaggiosa, ogni cosa mi è lecita, ma non ogni cosa edifica.”

Con queste parole l’Apostolo Paolo si rivolge ai Corinzi, nel cap. 10 versetto 23, per tracciare una netta linea di demarcazione tra la liceità di una determinata azione e l’opportunità di metterla in pratica.

Nessun v’è alcun dubbio sulla liceità da parte del Pastore Terry Jones di dare fuoco al Corano, ma siamo altresì certi sulla inopportunità di un simile gesto. Ma non tanto per le possibili ritorsioni da parte di estremisti islamici che minacciano attentanti in tutto il mondo, con inevitabile tributo di sangue innocente, ovviamente anche per questo, ma soprattutto perché noi, a differenza di queste persone, crediamo nei valori di libertà, di tolleranza e di rispetto verso gli altri, anche quando questi sono culturalmente lontani anni luce da noi.

Non mi convince neanche il solito discorso della reciprocità da molti invocato in altre circostanze, per cui, siccome loro lo fanno allora lo facciamo anche noi, siccome loro non danno ai cristiani libertà nei loro paesi, allora nemmeno noi la concediamo loro.

Ma noi facciamo le cose che facciamo non per convenienza, ma perché ci crediamo, perché crediamo in certi valori evangelici, indipendentemente da ciò che fanno gli altri. Ad esempio crediamo nell’invito di Gesù, riportate in Matteo 5:44: “Ma io vi dico: amate i vostri nemici, benedite coloro che vi maledicono, fate del bene a quelli che vi odiano, e pregate per quelli che vi maltrattano e che vi perseguitano”.

Inoltre non possiamo nemmeno fare di tutta l’erba un fascio. Chi sono questi loro? Parliamo di estremisti islamici, e però poi compiamo gesti che offendono e mancano di rispetto a tutto il popolo islamico, che come noi ha il diritto di credere ciò che vuole. Sta poi a noi avere la capacità di vincerli a Cristo, e convincerli della superiorità di Cristo a Maometto.

Se desideriamo continuare a registrare migliaia e centinaia di migliaia di conversioni di islamici a Cristo in tutto il mondo, il modo migliore è mostrare loro l’amore di Cristo, non già mancare loro di rispetto.

Difficile comprendere le vere ragioni che hanno indotto questo pastore a concepire un’idea del genere, e a ignorare gli appelli da chiese, associazioni, capi di stato, di ogni parte del mondo, quel che è certo è che sarebbe un grave errore.

(Stefano Bogliolo, pastore evangelico in Roma e membro dell’esecutivo AEI)

L’ALLEANZA EVANGELICA ITALIANA SULLA DECISIONE DEL SINODO VALDESE-METODISTA DI BENEDIRE LE COPPIE OMOSESSUALI

agosto 31, 2010

L’ALLEANZA EVANGELICA ITALIANA SULLA DECISIONE DEL SINODO
VALDESE-METODISTA DI BENEDIRE LE COPPIE OMOSESSUALI

“Ecco, dice il Signore, io vengo contro i profeti che fanno parlare la
loro propria lingua, eppure dicono: Egli dice” (Geremia 23,31)

L’Alleanza Evangelica Italiana ha in diverse occasioni offerto il suo
contributo al dibattito su temi etici e pastorali legati alla
omosessualità (AEI, Omosessualità: un approccio evangelico, 2003). Per
questa ragione ha seguito con attenzione l’evoluzione delle posizioni
del protestantesimo storico, cercando occasioni di dialogo e di
confronto, e non ha mancato di richiamare tutti alla fedeltà biblica,
anche su un tema delicato come l’omosessualità. D’altra parte, esso è
argomento di dibattito e di divisione in tutto il mondo cristiano ed è
diventato uno dei luoghi simbolici in cui passa la distinzione tra
protestantesimo evangelicale e neo-liberale.

Abbiamo preso atto della recente apertura del Sinodo della Chiesa
valdese-metodista (2010) alla benedizione delle coppie omosessuali ed
esprimiamo la nostra più viva preoccupazione per questa decisione. Si
tratta di uno smarrimento teologico prima ancora che etico, dove una
discutibile ginnastica ermeneutica ha notevolmente impoverito la
fedeltà all’evangelo. Non rispettare l’autorità biblica, evitando di
chiamare peccato ciò che chiaramente è definito come tale (ad esempio:
“Non avrai relazioni carnali con un uomo, come si hanno con una donna:
è cosa abominevole” , Levitico 18,22, ed ancora, “similmente anche gli
uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono
infiammati nella loro libidine gli uni per gli altri commettendo
uomini con uomini atti infami, ricevendo in loro stessi la meritata
ricompensa del proprio traviamento”, Romani 1,27), significa infatti
procedere con determinazione verso la perdita dell’evangelo stesso.

La griglia normativa che riceviamo dalla Bibbia ci incoraggia senza
incertezze a sostenere la famiglia come nucleo costruito sul
matrimonio di un uomo e di una donna, i quali si uniscono
volontariamente e pubblicamente in vista di un progetto condiviso
all’insegna della solidarietà e della fedeltà. Altre unioni – di
qualunque tipo – “che comportano rapporti sessuali sono considerate
fornicazioni e adulteri” (AEI, Gli evangelici e le unioni di fatto,
2005) e viste come effetti del peccato. Senza Gesù Cristo, nessuno è
“sessualmente normale”, ma chi vuole seguire Gesù Cristo in una vita
di discepolato deve sempre aprirsi ad un cammino di cambiamento e di
santificazione che, tra l’altro, comporta l’abbandono di relazioni
sessuali al di fuori dal matrimonio, omosessuali od eterosessuali che
siano. Nessuno, neanche un sinodo o un’autorità ecclesiastica, è
autorizzato a benedire ciò che Dio non benedice. Se lo fa dice una
menzogna e si carica di una grave responsabilità.

Invitiamo le chiese, le agenzie e le opere evangeliche ad impegnarsi
con sensibilità e integrità pastorale verso tutti, senza farsi
condizionare dall’orientamento sessuale, e a disapprovare la pratica
omosessuale perché incompatibile con le Scritture.

Esprimiamo solidarietà fraterna alla minoranza all’interno della
Chiesa valdese-metodista che si è espressa contro la decisione del
Sinodo, invitandola a mantenere alta la Parola della vita e a
coltivare relazioni col mondo evangelico sensibile alla fedeltà alla
Scrittura anche su questo tema.

Invitiamo gli organismi evangelici impegnati in qualche forma di
dialogo ufficiale con la Chiesa valdese-metodista ad esprimere la loro
disapprovazione per la decisione come atto di franchezza evangelica,
ad esempio sospendendo il dialogo in corso.

Infine, preghiamo per un radicale ritorno alla Parola di Dio (che è
sempre accompagnato dal ravvedimento dal peccato), non solo nella
Chiesa valdese-metodista, ma in tutto il popolo evangelico. Senza un
costante ritorno alle fonti della Scrittura, la testimonianza
evangelica è destinata ad inaridirsi.

Alleanza Evangelica Italiana
Vicolo S. Agata 20
00153 Roma
http://www.alleanzaevangelica.org
ufficio.stampa@alleanzaevangelica.org

Roma, 30 agosto 2010

VINCOLO SANTO….

agosto 23, 2010

Gary Thomas, Vincolo Santo: E se Dio avesse ideato il matrimonio non tanto per farci felici quanto per renderci santi?, Chieti: Edizioni GBU, 2009, 290 pp.

Il sottotitolo di questo libro lungo quasi 300 pagine ci fornisce una buona idea di quali siano i contenuti di questo libro “rivoluzionario”. Questo libro costituisce una sfida per tutti coloro che stanno per entrare, sono entrati, o continuano a vivere, nel vincolo matrimoniale seguendo il pensiero di coloro che appartengono al «presente malvagio secolo» (Galati 1:4, versione Riveduta a cura del dott. Luzzi). L’autore dedica questo libro a sua moglie Lisa ed inizia questa monografia al capitolo 1 definendo il matrimonio «La più grande sfida del mondo» , una chiamata alla santità «più che alla felicità» (pagina 11). Avendo iniziato, nel mio piccolo, a fare consulenza ad alcuni mariti i cui matrimoni sono in crisi ritengo che la lettura di questo libro possa essere utile sia a scopo preventivo sia di aiuto per quelle coppie di buona volontà che desiderino davvero esaminare le proprie aspettative per il matrimonio alla luce della Parola di Dio , a prescindere dai propri presupposti culturali i quali, per inciso, possono anche variare notevolmente a seconda di chi viene interpellato. (Moglie e marito, per motivi famigliari e culturali, possono avere aspettative diverse per il proprio matrimonio.)
In pratica di che cosa parla questo libro? Esso vuole essere un libro che «esamina le sfide, le gioie, le lotte e vittorie del matrimonio, con lo scopo di condurre ciascuno sempre più vicino a Dio e di aiutarlo a crescere nel carattere cristiano» (pagina 12), un libro che sfata miti derivanti da un certo romanticismo irrealistico riportando i coniugi ad avere i piedi per terra, chiamando tutte le persone sposate a costruire il proprio matrimonio sul «fondamento dell’amore maturo e non sul romanticismo» (pagina 17). L’autore ci ricorda che il matrimonio chiama ad una vita dedicata agli altri, alla santità e non ha lo scopo primario di renderci felici in quanto soltanto Dio può renderci felici, anche attraverso un matrimonio vissuto in modo sano. Non dobbiamo aspettarci troppo da esso (pagina 27), dobbiamo ricordarci che «qualunque cosa al di sotto di Dio mi farà sentire inappagato» (pagina 28). Il capitolo 2 ci ricorda che possiamo, per così dire, «trovare Dio nel matrimonio» in quanto alcune «analogie matrimoniali ci insegnano delle verità su Dio» (pagina 29). Fra queste annoveriamo sicuramente il fatto, per molti ma non per tutti, di procreare e diventare genitori. La Bibbia è piena di analogie che paragonano il rapporto fra Dio ed il suo popolo a quello fra un marito ed una moglie (pagine 30 a 35). Inoltre, dovremmo vivere il nostro matrimonio con un obiettivo fondamentale. Quale? Quello di sforzarci di essergli graditi (pagina 35). Questo capitolo si conclude ricordandoci che se il nostro scopo è quello di compiacere Dio, la nostra sopportazione nell’ambito del matrimonio sarà, per così dire, «a prova di fuoco» (pagina 39). Il capitolo 3 ci ricorda come, nella pratica, il matrimonio ci insegna ad amare, in quanto il matrimonio può essere un ambito in cui sviluppare «la nostra capacità di provare e di esprimere l’amore di Dio» (pagine 41-42). Il capitolo 4 ci parla del come il matrimonio ci insegna a rispettare l’altro. Il capitolo 5 ci presenta un concetto forse rivoluzionario per molti, ma biblico, e cioè il fatto che, specialmente per i mariti, un buon matrimonio (anche nella sfera sessuale) produce una buona vita di preghiera. Il capitolo 6 ci narra del come il matrimonio evidenzia le nostre limitazioni ed il nostro essere dei peccatori. Il capitolo 7 ci ricorda l’importanza di perseverare nel rimanere sposati e di come la perseveranza nella fedeltà al patto matrimoniale produca dei frutti spirituali. Esso affronta anche il tema del divorzio e di come Dio considera tale decisione presa sempre più frequenta anche a persone che si definiscono credenti. Il capitolo 8 ci insegna come l’accettare delle difficoltà del matrimonio finirà per rafforzare il nostro carattere mentre una tendenza a «fuggire dalle difficoltà è una grave mancanza spirituale che può farci rimanere allo stadio di bambini spirituali» (pagina 137). Il capitolo 9 mette in correlazione matrimonio e perdono, ricordandoci come un buon matrimonio ci insegnerà l’arte del perdono. Il capitolo 10 ci ricorda l’importanza del servizio nell’ambito di un matrimonio sano. Il capitolo 11 parla dei rapporti sessuali coniugali evidenziandone alcuni aspetti spirituali su cui forse molti lettori non avranno ancora riflettuto. L’autore, nelle pagine di questo capitolo, ci dice che «la sessualità nel matrimonio può produrre intuito spirituale e sviluppare il carattere» . Il capitolo 12, che inizia ricordandoci che nel matrimonio «la sincerità non basta» (pagina 246), sviscera aspetti del come «il matrimonio può renderci più consapevoli della presenza di Dio». Infine, il capitolo 13 ci ricorda che abbiamo una «missione sacra», il matrimonio «può sviluppare la nostra chiamata spirituale, la nostra missione e il nostro scopo».

Andrea Diprose
(consulente multi culturale e docente di antropologia culturale missionaria)

Priorità agli ebrei ma anche priorità al fare discepoli di rappresentanti di ogni gruppo etnico sulla terra

Maggio 13, 2010

Priorità agli ebrei ma anche priorità al fare discepoli di rappresentanti di ogni gruppo etnico sulla terra.

Secondo il sottoscritto, bisogna continuare a dare priorità all’evangelizzazione degli ebrei (stiamo parlando di “ebrei” o “giudei” da un punto di vista etnico), questo sia basandosi su di una lettura semplice di Romani 1:16-17 sia prendendo in considerazione anche il futuro di Israele etnico di cui si parla nei capitoli 9 a 11 di Romani, capitoli in cui è palese che ci saranno tante conversioni negli ultimi tempi di membri dell’ Israele etnico. Tutto questo però senza trascurare il bisogno di fare discepoli, non proseliti o “convertiti”, fra tutte le etnie (“panta ta ethne” nel greco) della terra (Matteo 28:18-20). Dobbiamo infatti evitare due errori piuttosto gravi, due estremismi:
a) L’estremismo buonista che ritiene che gli ebrei, in quanto “popolo di Dio” potrebbero essere salvati senza riconoscersi peccatori e bisognosi di Yeshua, il Messia;
b) L’illusione che tutto il mondo sia stato già raggiunto con il Vangelo solo perché le etnie maggiori di questo pianeta sono state raggiunte con il Vangelo. Infatti, Apocalisse 5:9-10 fa riferimento all’Agnello [Gesù] che ha acquistato gente di ogni tribù, lingua, popolo e nazione. Vediamo in questi versetti un chiaro riferimento ad ogni gruppo etnico. Non ho motivi per prevedere che qualche gruppo etnico vada escluso.

Questi ragionamenti sono anche in linea con vari documenti prodotti di recente da evangelici che hanno scritto nel periodico, disponibile online, LAUSANNE WORLD PULSE. Si veda ad esempio lo scritto di Kai Kjaer-Hansen, pubblicato a marzo 2010, ed intitolato “Not Messiah to the Jews, Not Messiah at All: On Jewish Evangelism”.

Andrea Diprose

E questo sarebbe cristianesimo?

aprile 7, 2010

Tratto da http://antefatto.ilcannocchiale.it/glamware/blogs/blog.aspx?id_blog=96578&id_blogdoc=2467425&yy=2010&mm=04&dd=06&title=legionari_di_cristo_fondati_da

6 aprile 2010
La congregazione che disconosce il suo “creatore”

Nessuno ricorda le disavventure pedofile dei Legionari di Cristo, ma qualche giorno fa, con discrezione rispettata dal silenzio dai media italiani (unica eccezione, Il Fatto quotidiano) i Legionari hanno chiesto perdono. E i commenti sulle ombre di questa “macchina da guerra” sono fioriti su giornali e tv delle due americhe e della Spagna. Perché coinvolge una congregazione che ha potere, capitali e un’influenza in frenetica espansione: 800 sacerdoti, 2.500 seminaristi. Università e seminari a Roma, Monterrey, Connecticut, New York, Salamanca, Brasile e America Latina. Della congregazione religiosa (approvata da Giovanni Paolo II nel 1983) non viene ricordata mai la figura del fondatore, venerata nei secoli da ogni altra congregazione con l’orgoglio ricordare chi ha raccolto i fedeli nel segno della fede. Della smemoratezza si capisce perché. Il fondatore Marcial Maciel era pedofilo e pederasta. Ha vissuto una doppia vita: la vita di un sacerdote cattolico “ispirato dalla grazia divina”, la vita di un orco che approfittava dei ragazzi in seminario…

* Questo sarebbe cristianesimo? Ricordiamoci che l’albero si valuta dai suoi frutti. Se i frutti alla gloria di Dio sono assenti o se si persevera nel peccato… la persona in questione non è attaccata alla Vite. Chi non è attaccato alla vera Vite, va in perdizione!

La Resurrezione ha spezzato la maledizione ….

aprile 1, 2010

La Resurrezione ha spezzato la Maledizione dell’Eden
30 Marzo 2010 – J. Lee Grady
Il peccato ha avuto inizio in un giardino. Migliaia di anni dopo, Gesù Cristo è risorto in un altro giardino ed ha annunciato la Sua vittoria.
Il resoconto della Pasqua ci mostra molte scene incredibili: l’ultima cena di Gesù coi suoi discepoli, il suo arresto e terribili battiture, la sua crocifissione tra due criminali, e le tenebre terribili che piombarono su Gerusalemme al momento della sua morte. Ma la parte della storia
che preferisco è quando Maria Maddalena guarda dentro la tomba di Gesù in quella mattina di resurrezione. Leggiamo in Giovanni 20:11-12:
“Maria però stava fuori dalla tomba piangendo, e così mentre piangeva si chinò e guardò dentro la tomba: e vide due angeli vestiti di bianco seduti, uno al capo ed uno ai piedi, dove era stato deposto il corpo di Gesù.”
I due angeli erano posizionati ai due lati della tomba di Gesù. Non vi rammenta qualcosa di familiare? Queste creature celesti saranno state simili ai cherubini che decoravano il coperchio dell’arca del patto, quella cassa d’oro che albergava la presenza di Dio nel tabernacolo di Mosè.
Quell’arca antica era nascosta dietro un velo. Secondo le regole dell’antico patto la presenza di Dio era mortale per la gente. Uomini e donne contaminati dal peccato dovevano trovarsi a una certa distanza, e solo il sommo sacerdote poteva entrare nel luogo santissimo una volta l’anno per il sacrificio.
Eppure, quella mattina di Pasqua, dopo che l’Agnello di Dio era stato sacrificato sulla croce del Calvario, la pietra che copriva la tomba del Signore fu tolta per rivelare questa visione così profonda: i due angeli erano seduti sopra la Sua tomba per mostrare a tutti noi che la gloria di
Dio era ormai accessibile a noi. Col Nuovo Patto, possiamo inchinarci davanti al Suo trono!
Ma c’è altro da scoprire in questo resoconto dell’incontro di Maria col Cristo risorto; il brano di Giovanni 20 si comprende appieno solo se lo paragoniamo con la storia della caduta dell’uomo in Genesi 3; guardate le somiglianze:
1. C’erano due giardini. La caduta dell’uomo è avvenuta nel Giardino dell’Eden, un luogo di intima comunione con Dio. Dopo la disobbedienza di Adamo ed Eva, Dio maledisse il suolo e li cacciò dal paradiso. Eppure, la mattina di Pasqua, Gesù apparve in un giardino (Giovanni 19:41) per ricordarci che oggi, grazie alla sua redenzione, ci è di nuovo
possibile avere un’intima comunione con Dio. Le porte dell’Eden sono di nuovo aperte.

2. C’erano due donne. Il peccato entrò nel mondo quanto un serpente ingannò Eva, la prima donna. Ma la domenica di Pasqua, dopo aver sconfitto satana con la Sua morte redentrice, Cristo apparve per primo ad una donna – una che prima era stata schiava di satana e dei suoi demoni, come ci dice Luca 8:2. La vita di questa donna ci ricorda che
Gesù ci offre una libertà totale dalla schiavitù del nostro passato.
3. C’erano due giardinieri. Nella storia della caduta, Eva e suo marito, Adamo (il giardiniere dell’Eden) si ribellarono a Dio dopo l’inganno. Eppure la mattina di Pasqua, Maria Maddalena incontrò un uomo fuori della tomba che lei pensava fosse il giardiniere. Quando si rese conto che era Gesù disse: “Rabbuni!” e cercò di abbracciarlo. La donna nella seconda storia non è con Adamo, è con Cristo, “l’ultimo Adamo”, ed ora noi abbiamo questa promessa: “Poiché come in Adamo tutti muoiono,
così in Cristo tutti saranno vivificati” (1 Corinzi 15:22).
4. C’erano due gruppi di angeli. Dopo che Adamo ed Eva crollarono nel peccato, Dio mise i cherubini con spade fiammeggianti a Est del paradiso per tenere fuori l’umanità (Genesi 3:24). Ma la mattina di Pasqua, gli angeli apparvero nel giardino, non per bandire l’uomo dalla presenza di Dio, ma per invitarci ad accogliere il Messia risorto.
5. Parallelismi. Perché ci sono così tanti parallelismi tra queste due storie? Lo Spirito Santo vuole che noi sappiamo che, nel grandioso piano di salvezza di Dio, Egli ha spezzato la maledizione dell’Eden. La morte e resurrezione di Gesù ha portato una grande inversione: mentre Genesi 3 ci ha portato dolore, schiavitù al peccato e allontanamento dalla presenza di Dio, Giovanni 20 ci porta guarigione, liberazione da
ogni schiavitù e la restaurazione della piena comunione col Figlio di Dio.
Mentre celebriamo la Pasqua in questi giorni, prego che potremo tutti avere un incontro come quello di Giovanni 20. Vi sfido a guardare dentro al sepolcro aperto ed a cercare il Signore come mai prima. Ricordatevi, la pietra è stata tolta, il velo è stato strappato; gli angeli ci invitano ad avvicinarci al trono di Dio e vedere la meravigliosa gloria del nostro
Salvatore Risorto.

© 2010 J. Lee Grady, tratto da Charisma Magazine Online

In nessun altro è la salvezza

gennaio 12, 2010

Poiché in nessun altro è la salvezza, solo in Gesù, i Cristiani hanno il diritto dovere di pregare per la salvezza eterna di altri che per ignoranza o per altri motivi, non si stanno basando sull’opera propiziatoria di Gesù per la propria salvezza. Atti 4:12 e 1 Timoteo 2 ci insegnano con tanta chiarezza che c’è un solo Dio ed un solo Mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo.
Non pregare per altri e non desiderare ardentemente la loro salvezza, vuol dire dannarli all’inferno e perlomeno fregarsene del loro destino eterno; questo modo di procedere, il non condividire il Vangelo della salvezza con altri mi sembra, nella migliore delle ipotesi, un “buonismo” che non porta da nessuna parte, invece, nella peggiore delle ipotesi si tratta di menefreghismo e egoismo.